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guestwriter

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Mettetevi comodi, il giro di giostra questa volta tocca al nostro narratore preferito, DB, che ci porta a fare una passeggiata ricca di particolari per le vie di Roma, con una colonna sonora fatta di lirica, aneddoti e ricordi: Roma in tre atti.

Grazie di cuore per il tuo contributo…sostanzioso! La rubrica del guestwriter è proprio questo, ognuno di voi si deve sentire libero di raccontare ciò che volete, un viaggio, un’esperienza, un ricordo, una poesia, concerto o come qui… una bella passeggiata! A chi tocca la prossima volta?

Tosca, Roma, Il sacro e il profano.

Roma, lunedì 7 novembre.
Alle 8,30 ho una cosa da fare a Largo Argentina, ma si risolve molto prima del previsto e alle 10 sono libero. Mi chiedo: e adesso che faccio ? Ha smesso di piovere e decido di impiegare le tre ore che mi avanzano con una passeggiata nel cuore della città. Ma quale passeggiata ? Gli itinerari possibili sono tanti. E se facessi i tre atti della ‘Tosca’, ancora una volta ? L’idea mi convince subito. Ho una tendenza naturale a tornare nei posti che conosco bene: metto a confronto la memoria con la realtà del momento, vedo se sono molto cambiato, cerco cose non viste prima e -se ne ho la forza- impressioni nuove.

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L’itinerario è breve, venti minuti a piedi: da Sant’Andrea della Valle a Castel Sant’Angelo passando da Piazza Farnese. Poi ci sono le soste la cui durata dipende dall’umore e dalle circostanze.
I tre atti della Tosca sono proprio quelli dell’opera -prima drammaturgica e poi operistica- così come è stata scritta e ambientata da Victorien Sardou, l’autore francese del dramma andato in scena a fine ‘800, dramma dal quale -pochi anni dopo- Giacosa e Illica ricavarono il libretto operistico per Giacomo Puccini.

Il primo atto si svolge in Sant’Andrea della Valle, la basilica di età tardo-barocca affacciata sul Corso Vittorio Emanuele, di fronte al Corso del Rinascimento. Il secondo atto a Palazzo Farnese nell’omonima piazza attigua a Campo de’ Fiori. Il terzo atto a Castel Sant’Angelo, appena oltre il Tevere.

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Se l’ingresso laterale di Sant’Andrea è aperto, entro sempre da lì. E’ da quella volta, tanti anni fa, che ho preso l’abitudine. Era una domenica di primavera e andavo in trattoria con amici. Una ragazza di colore -bellissima, vestita di celeste, una dea di un Olimpo africano- stava entrando in chiesa dall’ingresso laterale. Si fermò sul gradino e si voltò verso di me. Aveva occhi grandissimi. Io rimasi di sasso, non so cosa mi prese, piantato in mezzo al vicolo mentre gli amici proseguivano. Dopo lunghi istanti sul ciglio della chiesa, la ragazza entrò. Attesi qualche secondo che gli amici svoltassero l’angolo ed entrai pure io. Nel breve vestibolo era rimasto il profumo della dea africana. Con lo sguardo, la trovai subito in fondo alla navata, nei pressi dell’altare maggiore, parlava con una donna di colore in vivacissimi abiti tradizionali. Poco distante, altre donne in tinte sgargianti e alcuni uomini, sempre di colore, in abito scuro. La ragazza si accorse subito di me, come se fosse certa che l’avrei seguita. Io ero agitato e quasi urlavo per la rabbia: tra gli amici c’era una mia fidanzata di quel tempo, una ragazza bella e cara ma assai incazzosa. Come avrei giustificato la sparizione? ‘nvece d’anna’ a magna’ ‘ndo’ cazzo stavo? Ma proprio quel giorno dovevo incontrare la dea africana? La ragazza mi fissava, alta, statuaria, regale. Non ricordo di aver provato mai un’emozione così istantanea e fulminante. Avrei voluto -e dovuto- andarle incontro, prenderle la mano e dirle l’unica cosa che andava detta: andiamo via di qui. Per anni ho avuto la certezza che mi avrebbe seguito. Come un vigliacco non ne feci niente, girai i tacchi e scappai. Raggiunsi gli amici in trattoria, erano già seduti. Di fianco alla fidanzata c’era la sedia libera, ma lei manco s’accorse che ero arrivato. Nessuno mi si filò, nessuno mi chiese dov’ero finito. Dentro di me smadonnai a lungo e infine mi rassegnai alle fettuccine e alla mia triste natura di bravo ‘uaglione. O, meglio, di bravo coglione.

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Stamattina il tempo è grigio e Sant’Andrea non è il consueto effetto di luce e di stucchi dorati. I ricordi si sono già presentati e mi infastidiscono, ma la Basilica conserva tutte le sue bellezze.
La convenzione registico-teatrale della “Tosca” vuole che in una delle prime cappelle laterali, a destra o a sinistra, ci siano il palco del pittore Cavaradossi e la grande tela cui sta lavorando. La cappella è detta degli Attavanti, ma quella famiglia è pura invenzione. Le cappelle sono otto, tutte belle e di famiglie dell’aristocrazia romana, quella vera, cupamente reazionaria e ultracattolica.
Lascio perdere la trama di Tosca e lo sfondo storico, sennò facciamo notte. Mi limito a dire che il dramma e l’opera lirica si fondano sul triangolo classico della sceneggiata napoletana: Isso, Essa e ‘o Malament’ ( Lui, Lei e il Cattivo). Il resto va da sé ed è noto a tutti.
Cavaradossi attacca subito la prima aria. I tenori, in teatro, temono ‘Recondita armonia’ perché è difficile e arriva ‘a freddo’. Qui un sublime Franco Corelli risolve il tutto da par suo.

Mi sono seduto su una panca, ho la testa all’indietro per guardare la cupola e sto ‘riascoltando’ Franco Corelli. Ma Cavaradossi non fa in tempo a finire ‘Recondita armonia’ che s’affaccia impetuoso ‘o Malamente: il barone Scarpia, il perfido capo della polizia pontificia. Il tipaccio, a tutti i costi, vuole Tosca nel suo letto e la botta di libidine lo prende proprio lì, mentre si celebra il Te Deum. La libidine viene dichiarata sulle note solenni della musica liturgica in una confusione stupefacente di sacro e di profano. Per il ruolo di Scarpia serve un baritono di voce potente e grande temperamento. Il baritono è Sherrill Milnes:

 Questo film è girato in Sant’Andrea della Valle. Milnes entra dall’ingresso laterale e attraversa un vestibolo, lo stesso che attraversò la dea dell’Olimpo africano.

Il primo atto si chiude con Scarpia che bestemmia “ Tosca, mi fai dimenticare Iddio ! “, con il coro che intona il Te Deum e con poche battute possenti dei timpani, dei piatti e degli ottoni.
……………………….

Esco da Sant’Andrea. M’è venuta voglia di un caffè. Stanotte non ho chiuso occhio e sono stanco. Però, un caffè decente a Roma è cosa complicata. C’è un bar carino in via del Pellegrino dove lo fanno (quasi) bene. Decido di fare un giro lungo per arrivare a Piazza Farnese. Scendo per il Corso Vittorio fino alla Chiesa Nuova e poi risalgo via del Pellegrino.

Questa è la parte di Roma che mi suggestiona di più. E stamattina -stranamente- non c’è neppure il casino di traffico e di persone da cui è afflitta in modo cronico. Anzi, c’è una quiete che sorprende persino i palazzi, le pietre e gli intonaci ocra e rossastri. Sembra che mi dicano: cammina pure, perdi tempo, passeggia, cazzeggia….e quanno te ricapita?

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Arrivo alla Chiesa Nuova, svolto a sinistra all’angolo di Palazzo Baleani e sono in via del Pellegrino. Quest’area –da inizio ‘500 fino a metà secolo successivo- fu oggetto di svariate sistemazioni urbanistiche che servivano -tra l’altro- a dare una più comoda via d’accesso a San Pietro per i moltissimi fedeli che vi si recavano partendo dai popolari quartieri di Campo de’ Fiori, di Sant’Eustachio, della Torre Argentina. Nella Piazza della Chiesa Nuova fu posta una fontana, ma non è quella che vediamo adesso, la ‘Terrina’ che fu collocata solo a fine ‘800. La fontana precedente aveva molte bocche d’acqua e serviva a dissetare i pellegrini. Ma serviva anche alle prostitute che lì tenevano i loro commerci. Le donne potevano lavarsi, mantenere un minimo d’igiene e quindi limitare il diffondersi di malattie. Passo davanti alla fontana e mi vengono in mente queste nozioni -lette non so dove e non so quando- dalle quali deduco che i pellegrini andavano, sì, dal Papa, ma dopo (o prima?) andavano anche a mignotte. E lo facevano proprio sul sagrato della Chiesa Nuova o nelle immediate vicinanze. Ciò significa che, da secoli, il sacro e il profano nella Roma cattolica si mescolano e convivono in un trionfo di ipocrisie. E questo mi sembra che sia ancora un tratto della città, nonostante le infinite vicissitudini, i diversi influssi e le tracce profonde della storia: sacro e profano, solennità e debolezze, estasi e carnalità, preti e mignotte.

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Arrivo al bar. Manco da un po’, ma al banco ci sono sempre un ragazzo orientale e una ragazza romana. Ci sono divanetti e panche. Quasi tutti gli avventori sono stranieri o studenti di un vicino dipartimento di medicina.
Mi metto su una panca e prendo il caffè. Accanto a me due ragazzi -un maschio e una femmina- con tablet. Non posso non ascoltare la loro conversazione. Sono in Facebook e commentano il post di un loro amico. La polizia tedesca -sulla base di scoperte recenti e tecnologie sofisticate- ha fatto un identikit della faccia di Mozart meno che trentenne. I ragazzi commentano “Anvedi, ammazza, me pare quello…come se chiama…Travaglio…”. Commentano tra loro e leggono i commenti degli altri. Il commento dei commenti, la sintesi suprema è la seguente: “ Aho ! Stanno tutti a di’: me pare Travaglio”. Decine di persone convengono, dunque, su una sola emozione e una sola espressione ricavate dall’universo totalizzante della TV. Alla fine arriva da FB l’unico commento differente: “Me pare allucinato”. A quel punto l’esperienza ‘condivisa’ viene archiviata tra le mille e inutilissime scoperte quotidiane dei social. In quel momento ho pensato a quanta vita del genere umano -da oltre duecento anni a questa parte- ha avuto come riferimento artistico spirituale e musicale -o come semplice sottofondo- ciò che ha lasciato Mozart. Avere un volto che non sia quello dei ritratti d’epoca e dei cioccolatini –insomma, un volto finalmente attendibile- mi sembra utile a dare consistenza umana ad un’idea struggente e inafferrabile. Non resisto e chiedo alla ragazza di mostrarmi la faccia di Mozart. E’ gentile e lo fa volentieri. Mentre osservo mi chiede: “Somiglia a Travaglio, vero ?”. Rispondo disarmato “Sì, è tale e quale”. Il caffè è finito, mi avvio verso Piazza Farnese e verso il secondo atto di Tosca. Ma i pensieri sono più grigi del solito e stavolta so perché.

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……………….
Che poi il più simpatico dei tre, per me, è proprio Scarpia ‘o Malament’. E’ una specie di Jago, un fetentone, combina un imbroglio malefico, ma non lo fa per bramosia di danaro e di potere: ne ha già tanto. Lo fa per libidine, desiderio, passione. Volendo usare una parola grossa, lo fa per ‘amore’. Per farla breve, a modo suo, persino Scarpia è un sentimentale. Ascoltiamolo, a casa sua, al secondo piano di Palazzo Farnese. Una specie di casa-ufficio dove vive, riceve visite, dà appuntamenti galanti, ma svolge pure il suo duro lavoro di aguzzino e torturatore. Ruggero Raimondi qui ne descrive bene il carattere:

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Palazzo Farnese è una delle meraviglie architettoniche del nostro Rinascimento, una delle più celebrate. Ci sto davanti, mi sposto da destra a sinistra, vado più indietro e cerco punti d’osservazione diversi. Il Palazzo ebbe una lunga vicenda, molti intervennero nella sua progettazione e costruzione e tra questi Michelangelo. Visitare Palazzo Farnese è difficile perché dentro ci sta la rappresentanza diplomatica francese. Fanno visite guidate, ma c’è un problema di prenotazioni e di gruppi organizzati. Io, invece, sono disorganizzato, estemporaneo e individualista, e perciò figuriamoci. Una sola volta ho visitato una parte degli interni e fu nel 1989 perché nel bicentenario della Rivoluzione i francesi ‘aprirono le porte’. Però di quella visita conservo un ricordo vago.
Il secondo atto di Tosca si svolge tutto qui. E’ sera, al piano nobile la cantante e attrice Floria Tosca partecipa ad una ‘Cantata’, al secondo Scarpia combina casini e fa ‘un mazzo tanto’ a Cavaradossi. Poi Tosca sale al piano di sopra e….

Il soprano è Renata Tebaldi. Insieme alla Callas, alla Schwarzkopf e ad altre tre o quattro, la Tebaldi è una delle più grandi di tutti i tempi. Il filmato è interessante perché mostra cosa era il teatro d’opera prima dell’avvento dei ‘registi’. I cantanti stavano sempre fronte al direttore e in posizioni comode e adatte all’emissione della voce. Adesso ‘Vissi d’arte’ lo fanno cantare con il soprano stesa sotto al letto o appesa alle tende, mezza nuda e in pose erotiche, visto che, di lì a poco, Tosca dovrebbe ‘consumare’ con Scarpia. Insomma, un’ammuina scenica inutile. Ho letto che Riccardo Muti non dirigerà più opera in teatro per non avere a che fare con i registi: non ce la fa più. Se è vero, la mia ammirazione cresce a dismisura.
……………………………….
Il secondo atto è finito e tutti sanno come. Lascio Piazza Farnese e faccio per dirigermi verso Castel Sant’Angelo, ma, un po’ sovrappensiero, invece di prendere via di Monserrato, vado sul lato opposto e dopo pochi passi mi ritrovo in Piazza Trinità dei Pellegrini. Mi accorgo dell’errore. Penso vabbuo’, poco male, faccio per intero via Giulia e arrivo comunque.

Passo sotto casa di un grande storico dell’arte, oggi molto anziano. E’ stato il maestro di tanti, ma è stato anche un uomo riservato, di carattere ispido, poco presenzialista e per nulla televisivo. Pertanto, quasi nessuno oggi si ricorda di lui. Ma io sì, me ne ricordo, con deferenza e gratitudine. Chiesi un incontro per una questione che mi stava a cuore e fui accolto con cortesia. C’era anche la moglie, una signora molto carina che mi disse subito: “Non assisto mai alle conversazioni di mio marito, ma stavolta sono curiosa come una scimmia”. Dopo la conversazione mi mostrarono la casa che era un’antologia perfetta della pittura e della scultura italiana del novecento. Ogni pezzo aveva una sua storia e stava lì per un motivo preciso. I pezzi più antichi il Professore li aveva ereditati dalla famiglia, ma quelli più recenti -dagli anni ’40 in poi- erano il frutto dei suoi studi e dei suoi incontri con quelli che erano già o sarebbero diventati i maggiori artisti figurativi degli ultimi decenni. C’era il dono dell’artista di cui aveva curato il catalogo di una mostra o al quale aveva dedicato un articolo o una monografia. C’era il dono dell’artista coetaneo e vicino di casa. C’era il dono di pura simpatia e c’era l’omaggio alla signora. C’era anche un piccolo ‘olio su tela’ di un nome altisonante portato dall’Autore medesimo per un invito a cena. Un quadro bellissimo “in cambio di una cena fatta di pasta e ceci , animelle, carciofi e vino di Frascati”. In breve, vedevo l’arte e il collezionismo senza grandi quattrini, ma come pratica quotidiana, minima, domestica. Una pratica possibile solo in un certo ambiente e solo a certe condizioni, ma una pratica semplice naturale dimessa e -in apparenza- casuale. Ero molto colpito, il Professore se ne accorse e mi chiese “Che ne pensa?”. Risposi che mi sentivo come Hannah Arendt al processo Eichmann, ma che, invece di pensare alla ‘banalità del male’, pensavo alla ‘banalità del bene’. Il Professore e la moglie fecero una grande risata e il pomeriggio si concluse felicemente come era iniziato.

Abbandonato a questi ricordi, scendo lungo via Giulia e vado verso il lungotevere. Qui abitava un altro storico dell’arte, tutt’altro che severo e appartato. Il tipo può apparire brillante, vivace e creativo, ma non so dire che studi abbia fatto e che originalità di analisi esprima realmente. Però, si sa muovere, sa dialogare con il potere, sa tessere le sue trame, lo si trova ovunque e quindi tutti lo conoscono. Il mondo è più che mai degli svelti: di penna, di lingua e di mano. Però è pure un mondo che funziona una chiavica e che di continuo presenta il conto delle sue contraddizioni.
………………………….

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Eccomi a Ponte Sant’Angelo, in vista del grande Castello, per l’atto finale tragico e travolgente. Guardo l’orologio ed è ormai mezzogiorno passato. Alle 13 devo essere in via Santa Chiara, dietro il Pantheon, e ne deduco che l’ora è fuggita pure per me:

Il tenore di questo filmato è Mario Del Monaco, un gigante del melodramma.
Lo so, ho centrato in pieno la banalità: questo è uno dei pezzi più famosi, usati ed abusati di tutta la storia della musica. E mo’ sul’ pecché stong’ sott’ all’Angelo ‘e Castel Sant’Angelo me mett’ a canta’ “E lucean le stelle” ? Me lo chiedo in napoletano e mi rispondo in italiano: è meglio se penso ad un finale di passeggiata meno scontato. Nell’opera, Cavaradossi viene fucilato e lei, Tosca, si butta di sotto e si spiaccica sugli spalti del Castello. In teatro usano mettere dei materassi dietro il parapetto dal quale il soprano deve scaraventarsi. Anni fa, in un nostro teatro -credo fosse l’Arena- i materassi erano troppo elastici o troppo alti e il soprano troppo cicciotta. Mi sembra che il soprano fosse Eva Marton, cantante ungherese molto brava e molto in carne. Quando si buttò fece un rimbalzo sui materassi e il pubblico la vide volare di nuovo in cielo. Qualcuno pensò ad una trovata registica che simulava un miracolo, una grazia divina che salvava la splendida eroina. I più prosaici, invece, pensarono semplicemente che la cantante era troppo chiatta.
Ecco questo è un degno finale all’italiana, adatto ai tempi, alla nostra condizione odierna e alla nostra antropologia. Un finale tragico, sì, ma comico e farsesco immediatamente dopo.
………………..
E’ tardi, devo correre e mi incammino in direzione del Pantheon. Passo davanti al Chiostro del Bramante e poi entro in Piazza Navona. In fondo alla piazza, davanti a Palazzo Pamphilj, dove c’è l’Ambasciata del Brasile, ci sono delle tende, delle pensiline e delle attrezzature. Penso al miliardesimo set cinematografico, ma stanno facendo fotografie di moda. Ci sono molti addetti. Quasi tutti ragazzi magri, pallidi, vestiti di nero. Qualcuno dei maschi con barba islamista. Vedo una sola modella, che sta in piedi, dritta, i capelli raccolti, filiforme, sembra carina. L’abito che indossa e che viene fotografato è una specie di tunica leggera a righe orizzontali di vario colore. Quando passo vicino, noto che la modella, più che carina, è stupenda: bionda, viso perfetto, occhi chiari e naso all’insù. Mi ricorda tanto una persona molto lontana e molto vicina. Tra me e me, sorrido e penso che quella breve visione e quel pensiero concludono bene la passeggiata e le tre ore di inattesa libertà.

                                                                                                                                        Domenico Baldari

  • Letizia

    Certo, è sempre più scontato dirlo, ma tu sei il nostro Guestwriter con la G maiuscola, impossibile ‘competere’ con te e con le tue capacità dialettiche!
    Leggere questo tuo racconto (così come tanti altri che hai pubblicato qui, per la verità) è stato quasi come tuffarsi dentro la sceneggiatura di un film, perché descrivere dettagli, emozioni e ricordi (soprattutto di lunga data) come sai fare tu non è da tutti, naturalmente… e io, da eterna grafomane, ho sempre avuto un debole per chi scrive tanto e in un certo modo, rendendo le parole scritte immagini vivide e reali.
    Perciò, grazie di questa bella passeggiata per Roma, città che continuo ad amare spassionatamente, nonostante i suoi malanni sempre più acuti.
    Adesso basta con le sviolinate, però… 😛 😀
    Un abbraccio e buona domenica,
    Lety

    20 novembre 2016 at 14:27 Rispondi
  • naty

    Attraverso il racconto di Domenico Baldari,ho viaggiato nell’Arte ,barocca ,l’opera il canto ,la musica …
    ho visto la Roma di Pasolini, Fellini…e il famoso dipinto di Renato Guttuso … V ia Margutta ,una Roma colorata da vizi e virtù ,il fascino di una città che ha fatto storia negli anni ,abbiamo così rivisto alcuni dei suoi volti ,i passi di ognuno di noi noi che negli anni forse l’ha conosciuta…ma oggi l’applauso va a Domenico ,un artista Egli ci preso per mano (e con la mente ci ha portato ) nella Sua Roma…
    Complimenti Domenico !!!
    Buona serata a te ed al Planet,naty

    20 novembre 2016 at 17:21 Rispondi
  • naty

    scusate gli errori !naty

    20 novembre 2016 at 17:24 Rispondi
  • PuroNanoVergine

    E’ sempre un piacere leggere un tuo brano, Domenico.

    Sei in grado di donarci delle pillole di cultura con uno stile naturale, leggero, a volte umoristico, a volte malinconico (che mi sembra dettato dalla consapevolezza che il tempo sia passato o sia prossimo a farlo).

    Leggendoti non ho mai l’impressione dell’intellettuale che vuole mettersi in mostra, ma di una persona che sa mescolare nozioni “alte” (che siano la musica lirica o l’architettura di alcune opere romane, poco cambia) con annotazioni “basse” (tipo i commenti facebookiani sulla somiglianza Travaglio/Mozart).

    In fondo alto e basso si mescolano naturalmente, così come possono convivere sacro e profano (la rievocazione dei pellegrini che univano la visita papale con la frequentazione delle prostitute mi ha riportato alla mente il considerevole quantitativo di preservativi ritrovati sul prato che ospitò una moltitudine di giovani, in occasione del giubileo romano del 2000).

    Sulla Tosca, dico solo che “E lucean le stelle” (uno dei pochi brani lirici che conosco) mi riporta alla mente due episodi che si legano agli ultimi giorni che ho vissuto con mio padre (sono ormai trascorsi quasi 30 anni) e con mia madre (nel 2014).
    Nella mia (totale) ignoranza posso solo dire che mi affascina l’intepretazione di Placido Domingo.

    Grazie ancora per l’articolo che hai postato (e grazie a Filippa per averlo ospitato).

    Ecco Domingo:

    https://www.youtube.com/watch?v=fzzy4PhPWnw

    21 novembre 2016 at 21:31 Rispondi
  • veraB'

    Roma la conosco poco e ci sono stata solo due volte, ho un luogo specifico nel cuore, Piazza Farnese, infatti è stato inevitabile farmi rievocare ricordi bellissimi …

    In merito al tuo racconto della capitale, ho percepito una certa emozione, che piacevolmente e contagiosamente si è diffusa anche in me.

    Trovo che sei ogni volta molto bravo a scrivere, la tua cultura e la cura nei dettagli ha fatto si che nei tre atti della “Tosca” hai composto il “Tuo capolavoro”.

    Caro Domenico, grazie per avermi tenuta per mano e portata con te in questo meraviglioso “giro di giostra”

    Un bacio
    Vera

    22 novembre 2016 at 14:31 Rispondi
  • Angela

    Grata, davvero grata per questo splendido contributo. Per chi ama l’opera, Tosca è Roma, e Roma è Tosca. Raccontata così lo si sente ancora di più. Grazie perciò a Filippa che l’ha ospitato e a Domenico che col suo racconto mi ha fatto rivivere un’identica passeggiata fatta tanti anni fa con mio padre nei luoghi della Tosca. Da allora Sant’Andrea della Valle è diventata la chiesa del cuore. Un’emozione così è un vero regalo

    22 novembre 2016 at 19:51 Rispondi
  • DB

    Ringrazio tutti le gentili Letizia, Naty, Vera B. e Angela per le parole belle e le espressioni di finissima sensibilità.
    Ringrazio Filippa per l’ospitalità, l’impaginazione perfetta e quel pavimento di sanpietrini.

    Mi dispiace un po’ per la lunghezza, ma -in tre ore di passeggiata- di pensieri in libertà, in media, per la testa me ne passano tanti. Figuriamoci tra pietre che frequento e amo intensamente da un tempo lunghissimo. E infatti mi sono dovuto autocensurare. Su Roma e Tosca, su Sacro e Profano ci sarebbero un sacco di altre cosette sfiziose che, camminando, si presentano davanti. Però, per questa volta, basta così e avanza pure.

    PNV parla di tono a volte malinconico del racconto e penso che abbia ragione: la memoria porta sempre un po’ di malinconia, per forza.
    Mi propongo fin dall’adolescenza di sfuggire alle malinconie della memoria e di vivere nel presente, attimo per attimo. Però, mentre pronuncio la parola ‘presente’ e contemporaneamente mi gratto il naso, scopro che appena un attimo dopo quella parola e quel gesto già appartengono al mio passato e non sono più replicabili nello stesso identico modo. Posso farne riapparire un simulacro, un pallido fantasma solo attraveso la memoria. Ne consegue che tutto è ‘passato’ e memoria del passato. E che insieme alla memoria tocca tenersi anche il velo di malinconia.
    Quanto al famoso ‘presente’ in cui vivere libero da malinconie, continuo a cercarlo ma ogni volta scopro che -tecnicamente- non esiste.

    Ancora grazie e saluti a tutti,
    DB

    23 novembre 2016 at 00:00 Rispondi
  • Laura C.

    Lo so che sono molto in ritardo, ma sono giorni intensi questi ultimi vissuti e non riesco a stare al ritmo d’una volta!
    Domenico, grazie davvero per questo racconto. Devo cercare un po’ di tempo la sera tardi, quando tutti sono a letto, e godermi per bene questa Tosca che io, da profana, non ho mai sentito.

    Avevo iniziato a buttar giù qualche parola per il mio racconto, ma hai lasciato il listone troppo alto, caro amico!
    Adesso dovrò davvero impegnarmi!
    Un abbraccio forte

    25 novembre 2016 at 12:45 Rispondi
    • DB

      Sono contento che questa mia passeggiata sia servita a farti conoscere Tosca.

      Un saluto cordiale,

      DB

      29 novembre 2016 at 17:05 Rispondi
  • Giu

    Caro Domenico,
    ho una sola parola per descrivere questa storia: meravigliosa!
    E, credimi, mi ha toccato molto da vicino…
    Devi sapere che mio padre fu un cantante lirico, tenore, di livello amatoriale certo, ma solo per questioni economiche. Tu non ne troverai traccia in nessun annale, ma io ci sono cresciuto…
    Quando preparava un risotto per noi ragazzi, intonava “a freddo”, appunto, “recondite armonie”, mentre se era triste si sfogava con “e lucean le stelle”, quindi mi hai fatto ringiovanire di qualche decennio.
    Io, figlio irriconoscente, ne ho ereditato la voce tenorile (però la devo impostare eh, sennò non viene) ma ovviamente non la tecnica, e un po’ me ne rincresce perché in questo modo mi sento partecipe del declino di questa cultura, ma tant’è.
    Grazie Domenico, anche perché mi hai fatto ridere di gusto quando hai definito Scarpia simpatico… 😉
    Un abbraccio affettuoso, Giu
    PS: conto sui tuoi prossimi racconti, mi raccomando

    27 novembre 2016 at 22:29 Rispondi
  • Giu

    Se posso aggiungere un commento alla parte non operistica del racconto, la naturalezza con cui descrivi questi episodi, mescolando in un unico calderone cose che solo apparentemente non c’azzeccano (la ragazza di colore, la fidanzata incazzosa, la fontana, il caffè con Travaglio,, lo storico dell’arte, le chiese, i registi…) ne ricavi un arcobaleno ben assortito di sapori e colori che ci servi a questo banchetto come una squisitezza sopraffina, della quale rincresce distaccarsi, mai sazi.

    28 novembre 2016 at 13:24 Rispondi
    • DB

      Caro Giu,
      sei molto gentile.
      In circa tre ore, girando e vedendo cose che conosco e amo, di pensieri in libertà ne vengono molti. Li ho solo esposti ‘in odine di apparizione’ e con qualche omissione per motivi di opportunità e brevità.

      Anche mio padre da ragazzo aveva studiato da tenore. Poi era stato chiamato alle armi, nel ’42. Era tornato a casa dopo l’8 settembre del ’43 con la voce che era diventata da baritono. Lui diceva che era colpa delle privazioni e degli spaventi della guerra, ma ho sempre pensato che si fosse semplicemente stufato e per questo aveva smesso di studiare canto. Tuttavia, gli erano rimasti la passione per la musica, una certa competenza e molti compagni di studio che spesso venivano a trovarlo. Grazie a questa circostanza, il mio incontro con il teatro d’opera è stato naturale e piuttosto precoce.

      Ancora grazie !

      DB

      29 novembre 2016 at 17:23 Rispondi
      • veraB'

        …..a Te !
        veraB’

        29 novembre 2016 at 22:35 Rispondi

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